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venerdì 12 luglio 2013

Calcutta su Shiver Zine

Calcutta – Forse… 

(2012 – Geograph Records)

Calcutta_Cover2012Calcutta è quel ragazzo che al falò in spiaggia porta la chitarra, suona le canzoni brutte e tutte le coppiette cominciano a pomiciare per poi appartarsi fra le dune, fino a quando quegli accordi scordati non suonano ormai soltanto che per lui solo e della pira ardente non rimane che qualche tizzone tiepido. Ed è in quel momento che probabilmente nascono le canzoni di Forse…: quando il vento gli getta sabbia negli occhi, il tepore del legno è quasi svanito e l’alba incombe. Canzoni da cantare quando si è soli e depressi: per tenersi caldi e meno soli davanti alla grandezza del mare grigio.
Nella voce di Calcutta da Latina – città dalla storia ingombrante e dalla fisionomia intimidente, e viceversa – c’è la desolazione che i luoghi da lui raccontati della provincia e del litorale laziale emanano, specialmente quando al di fuori della stagione balneare: colate di cemento semi-abusive e condonate, ideate da architetti cattivi e stuccate malamente. Luoghi apatici, senza prospettive, dediti solo all’usura del loro intonaco.
Se molto spesso s’è detto che la canzone italiana ha il fiato corto, i paraocchi e pecca di provincialismo, i testi di Calcutta eccedono: sono quadretti veristi di momenti quotidiani minuscoli. Come in “Arbre magique” dove si canta del far l’amore nello spazio afoso e scomodo di un automobile in mancanza di meglio, omaggiando anche un altro grande cantautore venuto dalla provincia laziale: “ma noi, una cantina buia dove noi/non l’abbiamo avuta mai/lo facevamo in macchina/in macchina.”Eppure, come spesso accade, gli estremi finiscono per toccarsi e così uno sguardo così particolare sulla desolazione immobile come quello Calcutta nasconde qualcosa di più: qualcosa che può essere  raccontato a chiunque da Sabaudia a Kyoto, passando per Formia. “Forse…” è, infatti, un disco umile, un disco insicuro e indefinito: fatto da chi e per chi non ha idea di dove guardare in un mondo troppo grande e spaventoso. E ciononostante ha anche qualcosa a cui aggrapparsi saldamente per non scivolare nel gorgo dello squallore e della disperazione: un appiglio fantastico fatto di quelle poche cose che si conoscono che ancora mantengono un po’ di colore in mezzo a tanto grigiore. Come la fantasia bambinesca, che evoca la ricomparsa de “I dinosauri” o disegna paesaggi sonori brillanti coi colori a dita nella traccia strumentale a grana grossa “Il tempo che resta sing along”, unico bagliore di speranza (implicita perché non cantata ma al massimo “bubolata”) del disco grazie alla presenza di ariosi archi sintetici. In tutto questo aiuta anche un’espressività non comune ed una produzione per nulla banale nonostante l’apparente essenzialità: sopra una voce spettrale, fragile e apatica che modella melodie sgualcite ma toccanti si stagliano accordi di chitarra grezzi, lenti e sgraziati – agghindati giusto da un riverbero un po’ “spaziale” – come se non gli importasse veramente impegnarsi in un mondo che sa essere così bello e deprimente a un tempo e la distinzione fra queste due qualità è spesso sfumata e confusa.
“Forse…” non è un album per tutti e per tutti i momenti: se non siete le persone giuste nello stato d’animo giusto vi sembrerà una lagna lunga mezz’ora che ascolterete ridendo nervosamente, come atto di rigetto per quel mood che non vi si confà. Se però sapete com’è sentirsi impauriti e senza una direzione precisa, come la prosaica eppure “immensa” busta di plastica spazzata dal vento in American Beauty, allora avrete fra le orecchie un piccolo gioiello sonoro da esaminare con attenzione, avidamente, alienandosi, per cercarne nuovi e meravigliosi dettagli mentre tutto il resto attorno sembra una merda.
 (Francesco De Paoli)


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